Di norma, per avere diritto all'indennità di disoccupazione, oggi NASpI, il lavoratore deve aver perso involontariamente il lavoro, deve provenire dal settore privato e non dal pubblico o dall’agricoltura o essere extracomunitario con permesso di soggiorno stagionale. Inoltre, per poter avere accesso alla NASpI, è necessario aver versato contributi contro la disoccupazione per almeno 13 settimane nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione.
All'avverarsi di queste semplici regole, si può chiedere ed accedere alla NASpI.
In pratica, il lavoratore ha diritto alla NASpI nel caso in cui subisca un recesso involontario dal rapporto di lavoro.
E se ci si dovesse dimettere per forza?
Ci sono casi particolari in cui il recesso involontario dal rapporto di lavoro, dà diritto all’indennità NASpI; ma li evidenzierò più avanti.
Il presupposto fondamentale è che non vi sia una volontà del lavoratore nel recedere anticipatamente dal contratto di lavoro.
In breve, sono i licenziamenti comminati dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore per motivi disciplinari; sia per giusta causa che per giustificato motivo soggettivo.
Nel caso di giusta causa, l'ex lavoratore ha diritto alla NASpI, indipendentemente dalla colpa o dal dolo dello stesso, nel commettere l’infrazione sanzionata dal datore di lavoro.
Quindi, anche i licenziamenti causati da comportamenti irregolari del lavoratore come, ad esempio, l’assenza ingiustificata per un periodo legittimante l’apertura di un procedimento disciplinare, può far attivare, su richiesta del lavoratore, l’erogazione dell’indennità di disoccupazione da parte dell’INPS.
Sempre in tema di licenziamenti, il diritto alla NASpI nasce anche in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, come, ad esempio, nel caso in cui il datore di lavoro voglia procedere ad una riorganizzazione aziendale che comporta la soppressione di una posizione lavorativa o nel caso di riduzione del personale per crisi aziendale.
Rientrano nei licenziamento per giustificato motivo oggetto anche le risoluzioni dovute ad una inidoneità permanente al lavoro del lavoratore, per motivi fisici o psichici; oppure nel caso in cui il lavoratore non possa svolgere l’attività contrattualizzata, in quanto è venuto meno un elemento indispensabile per lavorare, come ad esempio può accadere a una guardia giurata, alla quale il Prefetto ha ritirato il porto d’armi o a un autista al quale sia stata ritirata la patente per una grave infrazione.
Il diritto alla NASpI si ha anche per licenziamento dovuto a:
superamento del periodo di comporto;
volontà dell’azienda di concludere il rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo.
Se il recesso avviene per risoluzione consensuale?
Generalmente non si ha diritto all’indennità di disoccupazione!
Il diritto lo si può ottenere soltanto all’avverarsi di uno dei seguenti due casi; in particolare quando:
la risoluzione consensuale avviene al termine della procedura obbligatoria di conciliazione, prevista per i lavoratori a tutele reale, ai sensi dell’art.7 della legge n.604 del 1966;
la risoluzione consensuale deriva da un accordo dovuto ad un iniziale rifiuto del lavoratore al trasferimento ad altra sede distante più di 50 km dalla propria residenza, o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici.
Alla NASpI, al pari dei licenziamenti, ci si può accedere per:
dimissioni presentate dalla lavoratrice madre nel periodo ricompreso tra i 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del figlio. Tale tutela non spetta alle lavoratrici domestiche (colf e badanti).
dimissioni presentate dal lavoratore padre, nel caso in cui questi dia le dimissioni durante il primo anno di vita del figlio, sempreché abbia fruito del congedo di paternità obbligatorio; ovvero nel caso in cui abbia fruito del congedo di paternità alternativo, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre.
Infine, la NASpI spetta qualora il lavoratore o la lavoratrice si dimettano per giusta causa e cioè per una colpa imputabile al solo datore di lavoro.
L’INPS e la giurisprudenza hanno consolidato la grave colpa del datore di lavoro per:
reiterato mancato pagamento della retribuzione;
molestie sessuali sul luogo di lavoro e pretesa di prestazioni illecite;
modificazioni fortemente peggiorative delle mansioni, tali da pregiudicare la vita professionale del lavoratore;
mobbing, consistente in condotte vessatorie e reiterate attuate da superiori gerarchici o colleghi, le cui caratteristiche risiedono nel protrarsi nel tempo, di una serie di comportamenti e con la volontà di giungere ad una sorta di emarginazione del lavoratore;
notevoli variazioni nelle condizioni di lavoro susseguenti alla cessione dell’azienda o ramo di essa, anche attraverso la forma dell’affitto;
spostamento del lavoratore da una unità produttiva all’altra, senza che siano sussistenti le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”;
comportamento ingiurioso del superiore gerarchico nei confronti dell’interessato;
rassegnate durante la procedura di liquidazione giudiziale e cioè dalla data della sentenza dichiarativa, alla data di comunicazione del curatore di subentro o di recesso dai rapporti di lavoro come stabilito dal “codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.
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